di Claudia Boscolo
Del caso di Paola Caruso si è parlato in diversi luoghi, ponendo l’accento su due diverse questioni: come ha sottolineato Michela Murgia, da un lato vi è la battaglia per una generazione, e dall’altro l’accusa di vittimismo e autolesionismo per raggiungere un fine esclusivamente personale. La vicenda si è risolta per fortuna in modo pacifico: Paola ha riavuto il suo lavoro e ha innescato un meccanismo che sta smuovendo le acque stagnanti della protesta. Ma il punto cruciale rimane: perché la protesta contro le condizioni lavorative di chi è assunto come collaboratore a progetto si trova in suddette stagnanti acque?
Secondo le disposizioni della legge 30, risulta lavoratore non dipendente anche chi di fatto lo è. Inoltre, lo stesso è tenuto a rispettare orari di lavoro e la gerarchia del luogo in cui svolge il proprio inesistente progetto, anche se il contratto recita l’esatto opposto, pena la pressione del mobbing e il ricatto del rinnovo. Il contratto di collaborazione a progetto in realtà è una routine lavorativa costituita da mansioni tipiche del lavoro dipendente, ma nonostante ciò il lavoratore atipico non può accedere a nessuno degli ammortizzatori sociali, destinati in via esclusiva a chi ha un contratto anche solo a tempo determinato, basta che sia da lavoratore dipendente, contratto che sempre meno i datori di lavoro sono disposti ad offrire.
Nell’articolo già citato, Murgia affianca a quella di Paola Caruso la protesta dei cinque operai di Brescia. Accade raramente che sugli organi di informazione si affianchi la protesta dei lavoratori del terziario avanzato a quella degli operai. La scuola, poi, è trattata come un’isola a parte, come se il precariato scolastico, proprio differenziandosi per essere lavoro dipendente e non autonomo e garantendo quindi l’accesso a seppure minimi ammortizzatori sociali, non fosse comunque soggetto a una logica sia delle abilitazioni che delle entrate in ruolo a dir poco demenziale.
Murgia mette il dito nella piaga: la protesta di Paola Caruso è stata condannata evidenziando l’estremismo del gesto, come se non fossero piuttosto le condizioni lavorative a cui è sottoposto il lavoratore atipico ad essere estreme. In ogni caso: dopo anni di decostruzionismo, sull’estremismo, come su molto altro lessico della politica, è stato steso un velo di timoroso silenzio, perché evoca immagini che si preferisce rimuovere, perché riporta in vita un’atmosfera che non si vuole rivivere. Qualche giorno fa in una discussione in Rete a proposito di una recensione di Valerio Evangelisti dell’antologia di racconti Clash, qualcuno sosteneva che parole come “sistema” e “imperialismo” riconducono a un lessico politico da anni di piombo, e di conseguenza fanno rabbrividire. Affermazioni del genere forniscono il metro per misurare quanto è indisponibile alla lotta una società assuefatta a un generico relativismo di quarta mano, una specie di vulgata di Popper shakerata nel bigino di Vattimo, la cui unica utilità oggigiorno consiste nell’aggirare l’ostacolo. Ma l’ostacolo non è solo la rimozione del lessico. Se da un lato si riesce con svariate argomentazioni ad aggirare quello della lotta, altri cento ostacoli emergono tutt’intorno, di cui uno, il più difficile da ignorare, è la trasversalità dell’impoverimento economico e culturale di una nazione disposta a distogliere lo sguardo dalla classe politica impresentabile ed altamente dannosa a cui, in gran parte rinunciando al voto, ha delegato la propria felicità, diritto sancito dalla Costituzione Italiana all’art. 3 e a cui (entrambe, la felicità e la Costituzione) i lavoratori italiani stanno rinunciando esattamente nell’atto di distogliere lo sguardo.
Nell’ampio commentario generato da un post di Giap!, Wu Ming 1 scrive:
“[Q]uella che va superata è quella che la mia compagna chiama la “visione a mosaico”, cioè quel culto delle differenze in quanto tali che ha prodotto più che altro particolarismi e incapacità di vedere che *tutte le lotte*, anche quelle in apparenza molto diverse per obiettivi immediati e modus operandi, sono momenti della stessa lotta. Quello che è venuto a mancare è l’universale. Manca la narrazione che accomuni, perché per decenni si è portata avanti solo la narrazione che divideva. C’è chi si lamenta dicendo che in Italia non ci sono le lotte, ma l’Italia è *piena* di lotte, c’è conflitto dappertutto, ma queste lotte non vengono mai messe in collegamento da chi le racconta. Ieri sera il TG3 ha parlato delle contestazioni a Berlusconi nei luoghi dell’alluvione veneta, della protesta dei vigili del fuoco siciliani a cui non vengono pagati gli straordinari dell’ultimo anno e mezzo, dei comitati contro le discariche in Campania, ma erano tutti momenti disgiunti del TG, e l’impressione era di cose che non c’entravano niente l’una con l’altra, mentre *E’ LA STESSA LOTTA*, è la lotta contro chi cerca di far pagare solo ai deboli il costo del *ritorno del rimosso ambientale e sociale*. Ecco, noi dobbiamo ritrovare la narrazione che accomuni.”
Ritrovare la narrazione che accomuni significa in primo luogo identificare le differenze che nel corso del tempo sono andate perdute. Essere soggetto alla condizione lavorativa del prestatore d’opera con partita Iva o ritenuta di acconto, del lavoratore atipico a progetto, del lavoratore dipendente con contratto a termine (tutte formule vacue, la cui distinzione si sostanzia nella possibilità di accesso o meno agli ammortizzatori e nel diverso trattamento fiscale ai fini pensionistici), quindi, in sostanza, essere un lavoratore precario è davvero così diverso per chi proviene da un retroterra borghese e per chi invece vi proviene da un retroterra operaio? In quale maniera il termine borghese e il termine operaio influiscono su una coscienza di classe nell’Italia di oggi? Il nodo della questione è: esiste davvero nell’Italia di oggi una coscienza di classe talmente forte da garantire ancora il mantenimento di una “visione a mosaico”?
Come sottolineava Murgia, Maroni è il primo firmatario di quella legge 30 che permette il rinnovo infinito senza che avvenga mai il passaggio al tempo indeterminato, perché ciò che apparentemente conta è mantenere basso il costo del lavoro, e ciò può avvenire solo se al lavoratore vengono tolte per legge le tutele sociali. (Certo, credere che l’obiettivo della legge 30 sia stato unicamente la riduzione del costo del lavoro significa non averne compreso la vera portata politica e sociale.) Maroni è anche quello che decide se una protesta contro la condizione di cui è egli stesso corresponsabile non è più questione politica, ma diventa questione di ordine pubblico, come abbiamo visto nel disumano caso degli operai di Brescia, che ha giustamente scatenato una rivolta. Sono evidenti le ragioni che stanno dietro alla “narrazione a mosaico”. Non è certo casuale se due eventi che risalgono alla medesima causa vengono raccontati come se non esistesse alcuna relazione fra di loro: si crea una differenza fra Paola, italiana, laureata, collaboratrice della maggiore testata giornalistica italiana, perciò automaticamente associata a un retroterra borghese, e gli operai immigrati, associati senza ulteriore indagine a una classe di esclusi, anzi di miserabili. Per trasferirci invece su un piano di maggiore concretezza, in Italia qualunque alunno che dimostri particolari competenze e una specifica vocazione allo studio viene indirizzato verso il liceo dal consiglio di classe della sua terza media, e non certo in base a calcoli relativi alla classe sociale di appartenenza. Di lì, almeno finora, il sistema ha garantito una laurea a chiunque volesse prenderla. Giungere a collaborare con la redazione di un giornale significa inseguire un ideale, e sottoporsi scientemente ad una vita di rinunce, a meno che la famiglia non aiuti, ma non è la norma. La norma è quella di giovani collaboratori di qualunque estrazione sociale che si fanno il mazzo sottopagati nelle redazioni. D’altro canto, nessuno si sorprende più di incontrare nei cantieri o nei luoghi pubblici giovani africani laureati che si adattano a qualsiasi mestiere pur di sopravvivere, anche se il loro titolo di studio non riconosciuto (e il problema del riconoscimento dei titoli di studio stranieri in Italia è annoso, se non altro per il livello di conoscenza del lessico burocratico che richiede, che già stabilisce una barriera sociale) potrebbe in realtà garantire loro un inserimento anche in altri campi. La barriera è linguistica, ma è soprattutto legislativa e culturale. C’è in Italia una prassi del razzismo che si concretizza ogni giorno quando un immigrato chiede di fare ciò per cui avrebbe competenze e titoli, ma gli viene negato in base alla Bossi-Fini, per l’estraneità a un sistema complesso anche per chi ci è nato, oltre al fatto che la regolarizzazione del rapporto di lavoro è impedita dalla legge 30 già per chi il sistema lo conosce.
La domanda andrebbe ripetuta alla nausea: a chi conviene tutto questo? Cosa c’è alla base di una narrazione distinta e separata delle vicende? Chi è che ci guadagna se si continua a mantenere l’idea di un’identità operaia distinta da una borghese, quando né l’una né l’altra di fatto esistono più, laddove un operaio specializzato guadagna il doppio e gode di tutti i benefici del contratto a tempo indeterminato da lavoro dipendente, rispetto a un borghese co.co.pro?
Chiediamoci veramente in cosa consista l’identità operaia nell’Italia di oggi, e in cosa consista, se mai c’è stata, un’identità borghese. Chiediamoci una volta per tutte se continuare a mantenere le due identità separate e distinte non sia unicamente di ostacolo a una narrazione unitaria della lotta per un diritto del lavoro che garantisca a ognuno il rispetto dell’articolo n. 3 della nostra Costituzione.
Questa è una riflessione a margine di questo articolo che pone una questione molto importante, e cioè quella della creazione di un'identità di classe.
Riflettere sulla creazione di un'identità di classe che accomuni quanti sono costretti alla condizione di precariato significa anche riflettere sui mezzi e gli strumenti che ci permettono di realizzare una narrazione finalizzata a questo risultato.
Al termine dello sciopero della fame, Paola Caruso ha invitato quanti ne avevano seguito la vicenda in rete, rilanciandola attraverso gli strumenti di condivisione messi a disposizione da questa, a generalizzare il momento conflittuale a cui aveva dato inizio. All' hashtag #iosonopaola, che aveva caratterizzato gli update di Twitter legati alla sua vicenda, Paola ha proposto di sosstituire l'hashtag #iosonoprecario.
La possibilità che si apriva era, potenzialmente, enorme: creare attraverso Twitter una narrazione collettiva, multisoggetto, potenzialmente infinita che sapesse dare veramente conto di ogni sfumatura della condizione esistenziale precaria
Sfortunatamente solo in pochi hanno saputo cogliere questa sfumatura di possibile, che è velocemente tramontata.
Negli stessi giorni in cui si verificava tutto ciò, a tenere banco tra gli hot trend di Twitter vi era un altro hashtag, quel #berlusconipedofilo di cui si sono occupati anche i giornali.
Tutto ciò mi sembra sintomatico di come in rete continui a tenere banco un atteggiamento "brigatista" in cui si diluiscono anche le istanze più positive.
Mi sembra, perciò, che sia necessario anche riflettere su questi aspetti se si vuole dare vita ad un narrazione collettiva che sia in grado di porsi come momento fondativo di una rinnovata coscienza di classe.
Flavio Pintarelli
Ciao Flavio, grazie per il tuo intervento. I due esempi che porti sono significativi riguardo la presa che le vicende torbide di questo governo hanno sull'immaginario comune. Le questioni concrete, quelle cioè che vanno a toccare direttamente la macchina legislativa, non vengono né trattate adeguatamente dagli organi di stampa, né divulgate tramite la Rete dai lettori, perché impopolari. Ora, che ciò avvenga perché l'immaginario notoriamente si occupa di ciò che ha un potenziale onirico spiega la questione, ma credo che conti anche la disaffezione alla politica, l'idea che l'attività leglislativa segua esclusivamente interessi privati, cosa che peraltro corrisponde alla realtà di questi ultimi vent'anni. Questo però dovrebbe incoraggiare una reazione, che tuttavia non ci sarà mai se la narrazione della lotta sui media (fatta, ricordiamolo, di cronaca ma anche di commento, di immagini, di tutti i documenti e i testi che costituiscono appunto una narrazione) continua ad essere frammentaria. Personalmente mi auguro che la questione dell'unità della lotta venga ripresa in più luoghi e forme possibile. Ne ha già parlato Fumagalli ieri in una nota di commento al testo del movimento "Uniti contro la crisi", che rilanceremo qui fra un paio di giorni.
Mi sembra davvero una questione centrale, questa della frammentazione dei discorsi, della loro parcellizzazione, che ha uno suo equivalente etico ed estetico in una pratica diffusa in tv ancor prima che in rete. Ne parlavo ieri con un amico, il quale si ricordava di quando nei quiz televisivi c'era il notaio che interveniva per spiegare i motivi della risposta giusta. Oggi, nell'era dei quiz a crocette (come all'università: non devi dare la tua risposta, ma scegliere tra alcune sbagliate e una giusta) tutti hanno ragione e tutti hanno torto, in una sorta di zapping discorsivo che ricalca quello televisivo. Mi ha molto colpito, ad esempio, un fatto a proposito della puntata di Anno Zero in cui si parlava del caso scoppiato intorno alla ragazza marocchina, dove uno degli elementi invocati dalla difesa era l'autorizzazione telefonica data dal magistrato. Nella puntata seguente (è vero, si parlava di altro, ma il fatto è stato nuovamente citato) è venuto fuori che quel magistrato aveva smentito il fatto di aver mai dato quest'autorizzazione, eppure questo nuovo elemento non è stato ricontestualizzato, ma buttato là in vacca come si usa fare un po' ovunque, anche in quelle che sembrano le trasmissioni un po' meno peggio delle altre… E la stessa tendenza io la ritrovo anche in tutti questi moti secessionisti, che non sono altro che dei modi per rivendicare piccoli pezzetti di storie, storie che diventano "revisioni" una volta sganciate dal loro contesto più generale… Ecco qui l'importanza di una narrazione che sappia accomunare, perché non bisognerebbe mai smettere di raccontare, e di riniziare anche da capo ogni volta, visto che ogni elemento cambia in parte la storia, visto che è la differenza nella ripetizione…
L'anonimo di cui sopra sono io: Simone.
Ciao Simone, ti risponto con una battuta: siccome siamo a fine impero si ripresenta il fenomeno della parcellizzazione territoriale, metafora di tutte le parcellizzazioni possibili, non ultimo il puzzle narrativo, che a fatica si dovrà ricostruire. C.
Come dice Claudia, e ben riprende Flavio, la questione ruota intorno alla possibilità di ricreare le condizioni formative e costitutive di una coscienza di classe intorno ad un gruppo, che esiste non tanto economicamente (o per lo meno non primariamente), bensì piuttosto all'interno della narrazione sociale che produce questo teatro barocco che è l'economia mondiale. L'interpretazione dei ruoli, il doppiaggio, la sceneggiatura, la teoria critica. Non manca nulla, ed ogni attore di questo mondo perduto si trasforma in protagonista nell'ideale dramma che quotidianamente si svolge.
Io non conosco più pensieri, ne correnti, ne filosofi. Vedo marocchini che cadono dai pontili dei cantieri, slavi che muoiono nelle cisterne, gasati per mancanza di sicurezza, giornalisti che devono mettere in gioco la loro vita per fare il loro lavoro (non solo nella Russia di Putin), vedo insegnanti che cercano con il sangue e l'anima, ogni giorno, di dare un senso al loro lavoro ed alla loro vita. Io invece non voglio più vedere Bersani, o la Bindi, che se lo vadano a pigliare nel culo, perchè non riescono a mostrarmi un Italia che possa esistere senza la Marcegaglia. Questo popolo soffre, ed ogni giorno, come dice WM1 le rivolte aumentano, per ora a mosaico, ma non manca molto al momento in cui ci si renderà conto che le barricate hanno solo due lati.
Qualcuno sa cosa è successo in Francia? immagino nessuno, perchè è calato, rapido e veloce il blocco della censura. Totale e impenetrabile. Ritornare a fare controinformazione. E' primario. Ricostruire una rete come momento di contatto, in cui la ricostruzione della realtà si definisca. Oggi non è il 1980, ma in realtà è da allora che il grande racconto epico di una classe rivoluzionaria si è interrotto, davanti alla FIAT, ed alla paura. Oggi, trent'anni e due generazioni dopo, bisogna ricominciare da li, da quella paura, che va sconfitta. Rivoluzionare lo stato delle cose, e quindi la propria vita è il destino interiore di ogni persona, ed è quello che ognuno di noi fa, gli piaccia o meno, attraverso il suo lavoro e vivendo ogni giorno nel mondo.
Uff… sono Luca !
L'altro giorno ho avuto la fortuna di ascoltare il racconto di Silvano, un bellissimo uomo di 80 e passa anni che senza aver mai calcato nemmeno le aule di un liceo scrive in maniera strepitosa.
Silvano, anni or sono, fu costretto a dover lasciare la sua città di origine, Venezia, licenziato dalla sua azienda (lui era tipografo) per reati d'opinione: era "dichiaratamente" comunista e non lo nascondeva. Non vi parlo del fascismo, ma dell'Italia postbellica dove la Carta Costituzionale era fresca di stampa.
Due cose voglio riportare del suo discorso che credo riguardino questa "narrazione comune" di cui sentiamo la mancanza.
1. Silvano, citando la disputa tra Macchiavelli e Guicciardini, diceva che la ragione degli sfruttati non sta in cielo, ma nella forza. La ragione degli sfruttati sta nella loro comune forza organizzata, non nei servizi del TG3 o la domenica sera da Fazio e nemmeno nel pur ottimo Report. (è troppo retorico e semplicistico?)
A mio parere anche l'attacco ad Evangelisti e l'evocazione dei medioevali "anni di piombo" serve proprio a nascondere questo fatto fondamentale: che la possibilità della ragione sta solo nella forza comune per chi è vessato da questo sistema.
2. Quando ho chiesto a Silvano cosa distingueva gli sfruttati di oggi da quelli di ieri, lui ha detto una cosa molto semplice, a cui dovremmo prestare una seria riflessione. Silvano non ha detto "avevamo il sindacato forte", bensì: "c'era il partito". Credo che la "narrazione unificante" per quelli come Silvano fosse proprio il partito, nel bene e nel male, pur a rischio del "centralismo democratico" e dei mitologemi. Oggi, lo dico en passant, con il centralismo democratico abbiamo liquidato pure la narrazione.
carlo antonicelli
Carlo, nel bene e nel male sono d'accordo fino all'ultima virgola. E' proprio nella fine del partito (che io situo simbolicamente nella manifestazione dei 40.000 a Torino nel 1980, o se si vuole nel referendum sulla scala mobile di pochi anni dopo) che si realizza la fine della narrazione. Ma mi viene da chiederti, non hai provato a chiedere a Silvano cosa avremmo dovuto fare adesso? perchè non credo che ti avrebbe risposto rifondare il partito. Un pò troppo facile. Il partito oggi non c'è più, che ci piaccia o meno, e tutti lo sappiamo, per certi versi è meglio per altri peggio. E allora? E adesso? dove andiamo? Io, caro Carlo, penso che Silvano abbia perfettamente ragione, ma è come dire che abbiamo perso la chiesa, che siamo senza Dio. Non per questo siamo senza un'etica. La quaestio disputata di Claudia si ripone: se la precarietà forma una classe, socialmente e strutturalmente, come darle coscienza? come – novello Frankenstein – darle vita (politica)?
Luca
Una "narrazione comune" che coinvolga diversi settori produttivi con medesime forme di sfruttamento credo sia una sorta di fine utopico nel turbinio di "soggettività", individualismi e asfittica abitudine al ricatto e al compromesso in cui il Paese ci ha cullati….fino a farci sprofondare.
Lavoro da 8 anni oramai, a tempo indeterminato per una coop di servizi per l'Università di Bologna, insomma sono uno di quelli che chiamano "esternalizzati". E forse siamo una di quelle tessere opache -addirittura diafana direi – nella nazzarrazione a mosaico delle lotte per il lavoro e la dignità civile in questo Paese. Qualcuno a tentato di parlare di noi, quaesto popolo sommerso, che manda avanti uffici, biblioteche, laboratori informatici, che come api e formichine operaie ogni giorno, ogni mattino e ogni sera, aprono e chiudono strutture pubbliche in cui l'aria da fine impero è oramai viziata. Mi dispiace dirlo, ma noi purtroppo siamo senza voce.
Deboli tentativi di emersione ci sono stati, assieme ad altri precari a tempo indeterminato del calderone del " settore cultura" bolognese, ovviamente caduti nel vuoto…
Giovanni, Bologna
Luca, come saprai meglio di me la classe in sé non è la classe per sé. Oggi forse ci sono le "condizioni oggettive" (in sé) perché si possa parlare del precariato come una proletarizzazione delle condizioni di vita generalizzata. Ma manca appunto il "per sé". Ne parlava magistralmente Carlo Formenti nel suo ultimo libro Cybersoviet dedicato appunto al general intellect o classe creativa ecc. in cui l'autore sottolineava che manca ancora un'alleanza comune del precariato, nonostante ci sia più possibilità di comunicazione tra le lotto maggiore di quella che ci poteva essere 30 o 40 anni fa.
Non concordo quando dici che sarebbe troppo facile rifondare un partito. Invece mi pare proprio il contrario: è dannatamente difficile trovare una forma politica che possa dare espressione politica alle sofferenze del lavoro e dell'esistenza. Non so se sono miope, ma a tutt'oggi nel deserto che stiamo attraversando non si vede l'orizzonte del cambiamento e d'altra parte l'unica e solita forma di espressione politica sono i partiti o i movimenti che ci fanno ribrezzo (a ragione). Forse, dico, e lo dico con tutto il pessimismo della ragione possibile, perché non ho tessere di partito, dovremmo "assediare" cose come SeL o il Movimento a cinque Stelle e farci il culo per riavere quella forma politica a cui tanto aneliamo. è solo un'ipotesi, ma alle manfrine tipo "cambiamo il mondo senza andare al potere" (stile Rifondazione Comunista di qualche anno fa) non ci credo proprio.
carlo
Interrogarsi su quale forma politica sia necessario dare a queste lotte in modo da creare una narrazione che consenta di comprenderle nella loro portata "universale" o generale è un esercizio affascinante. Per farlo credo sia però necessario interrogarsi sulle trasformazioni che la politica ha attraversato ed attraversa in questi anni.
Qualche giorno fa su Giap si discuteva di come esista un doppio piano proprio della politica: c'è una politica "ufficiale" che ha tutte le marche della virtualità e si fa, non a caso, in spazi costruiti in base ad una separazione dall'uomo comune (il parlamento, la televisione, il comizio militarizzato). E vi è poi una politica, quella dei movimenti e delle lotte, intesa come prassi politica primaria, intervento diretto.
Sull'ultimo Alfabeta2 Zizek sostiene che il capitalismo stia gradualmente alterando il carattere democratico dei sistemi politici occidentali, che viene sostituito da una prassi politica tecnocratica e decisionista.
Perciò, se questo è vero, io vedo una debolezza intrinseca nel discorso di Carlo, quando sostiene che sarebbe necessario prendere il potere, facendo pressione su soggetti come SEL o 5stelle. Perché nell'espressione "prendere il potere" è implicita l'esistenza di un soggetto collettivo che direttamente si impadronisca del potere e lo eserciti. Ma in quei casi saremo nuovamente soggetti alla mediazione della rappresentanza, reintroducendo lo scarto (tra politica "virtuale" e politica "reale") a cui Wu Ming1 faceva riferimento.
È dunque in direzione della costruzione di un nuovo soggetto collettivo che dovrebbe lavorare chi si fa carico di interpretare, leggere e criticare il Paese ed il suo sviluppo.
Ma come è possibile restaurare il senso di un'esperienza comunitaria? La cronaca degli ultimi anni ha mostrato che è solo la condizione di emergenza che permette tale operazione. Letteralmente quando ci troviamo con il culo a mollo. In quelle situazione dovremmo cercare di far passare una narrazzione collettiva, ampia e generalizzata.
Ciao Flavio,
cerco di chiarire e di approfondire quello che intendevo dire nel post precedente.
Non ho mai usato l'espressione "prendere il potere", ma ho rievocato semplicemente il famoso titolo del libro di John Haloway "cambiare il mondo senza andare al potere" che, secondo me, rappresentava lo Zeitgeist della Rifondazione da anima bella.
Ecco, è appunto questo il problema, non essere delle anime belle, non disgiungere pratica e teoria, lavoro "manuale" da lavoro intellettuale.
Non ignoro il problema dello Stato, dell'ambiguità del potere e della "rappresentazione" democratica, ho letto Agamben e Negri. Ma nessuno di questi due è un buon politico.
Quello che cercavo di dire è che
1. Non sono le condizioni oggettive di sofferenza e sfruttamento che fanno la classe e permettono la trasformazione (basta guardare la storia contemporanea dei paesi occidentali a mio parere: v. il '68);
2. Molto pragmaticamente possiamo giocare con le carte che abbiamo su questo tavolo, l'Italia 2010, non guardare il faro zapatista o non so che. L'ipotesi di assediare dal basso quelle microistituzioni che ci permetterebbero un margine di azione e libertà è appunto un'ipotesi, che mi piacerebbe verificare, ma resta tale: un'ipotesi.
carlo
Carlo,
sorry ho equivocato il senso del tuo commento e l'ho sovrapposto ad alcune personali opinioni maturate con la frequentazione degli ambienti vicni a SEL e 5-Stelle.
Flavio
capisco il senso di quello che dicevi Flavio e lo condivido: adesso mi auguro che la discussione non si chiuda tra noi.
Anzi, vorrei che fosse solo l’inizio di un dibattito che finalmente si realizza. Carlo hai ragione quando dici che la classe in se e la classe per se vanno hegelianamente distinte, e se la questione non si ponesse non saremmo nemmeno qui a discuterne, ma realizzeremmo un progetto riformatore / rivoluzionario della realtà. Però non credo nemmeno che la fenomenologia del precariato come oggetto sociale che ogni giorno invade la nostra vita non abbia un valore politico, anche se non (ancora?) di classe. Flavio pone quesiti che purtroppo sento da troppi anni, ed anch’io cerco come te un maggior pragmatismo. Ma non è nei gruppuscoli minoritari di cui parli che si potrà trovare un’alternativa, che può nascere solo dalla struttura economico sociale di base. Io confido molto negli immigrati, che nella maggior parte dei casi non hanno le remore ed i vincoli di noi indigeni.
Sono Luca, scusate
@Luca: gli immigrati sono un esempio di lotta, ma non partono dalle nostre stesse condizioni. Gli immigrati non hanno alcun diritto, molto spesso niente da perdere, al contrario di molti di noi.
La condizione precaria è costituita da una doppia cattura, per come la vedo io, da un aspetto ideale positivo ed uno pratico negativo. Il primo aspetto è quello della liberazione dal giogo del lavoro fisso (come sento spesso dire), è l'idea che non ci si debba arrendere a fare per tutta la vita la stessa cosa, l'idea che finalmente si abbia del tempo libero (che coincide con l'idea che ci siamo già arresi al fatto di poter lavorare davvero dove vorremmo). Dall'altro lato è il venir meno della prospettiva futura, sia nei termini di una crescita lavorativa (progettuale, la cosiddetta realizzazione) che in quelli di un accantonamento delle risorse (quella pensione che è sempre più un miraggio). Il punto di rottura, a mio avviso, arriverà quando verranno meno gli ammortizzatori sociali "naturali", quelle famiglie che hanno permesso a molti di noi di poter studiare, di accumulare un sapere che non ha prodotto ricchezza.
@ Simone
io ho molte perplessità sul distinguere nettamente la condizione del precario nativo da quella dell’immigrato. Non stiamo forse pensando proprio alla ricomposizione della visione a mosaico ? Le diverse espressioni che assume lo sfruttamento nel capitalismo post salariale sono tutte analoghe, che si tratti dei dottori che fanno ricerca gratis (sperando forse, ma nemmeno tanto, in una certezza futura) o dei maghrebini che lavorano in condizioni disumane per mandare uno stipendio a casa, come giustamente evidenziava Claudia nel suo brano.
Quell’aspetto positivo a cui tu alludi nel lavoro non a tempo indeterminato, quella libertà, dovrebbe essere chiaro da tempo che è solo un fantasma, un modo per far rientrare anche il tempo cosiddetto libero nel tempo di lavoro. Non credo che il lavoro autonomo sia una via per uscire dal precariato, per quanto, in certe occasioni, possa offrire maggiori soddisfazioni personali. Riguardo alla dinamica che produrrà il punto di rottura, penso che la questione sia decisamente più articolata della carenza dl risparmio familiare tipico dell’Italia popolare. Difatti a fronte di questa situazione vi sono i notevoli e costanti livelli di crescita delle imprese non italiane in questo paese. In altri termini, se è vero – e lo è – che molti extracomunitari sono allo sbando, è altrettanto vero che ve ne sono moltissimi che producono ricchezza e che stanno assumendo un peso sempre maggiore in alcuni settori economici come gli alimentari, il tessile e l’edilizia. Inoltre: la favolata delle pensioni. Quando secondo l’ISTAT nel 2040 un terzo della popolazione indigena sarà ove 65, qualcuno mi spiega quale sarà quel governo che non gli darà un reddito minimo garantito ? Oggi noi lavoriamo su dati che non tengono conto di questi fattori. Tra trenta o quarant’anni noi vivremo una Europa probabilmente molto islamizzata e con una preponderante presenza Indo cinese. Probabilmente l’elite intellettuale oggi esistente avrà il compito di gestire la transizione da Berlusconi a quel mondo. Compito decisamente ingrato, ma che nessun altro può fare.
Luca
Copincollo qui la mia risposta a Giorgio Fontana, autore di un articolo apparso su Minima&Moralia che mi ha particolarmente irritata. (Claudia)
Giorgio, mi spiego meglio:
mandare una domanda per un PhD significa di fatto avere le valigie pronte, che tu abbia il biglietto in tasca o che tu non lo abbia. Lo so perché l'ho fatto, anzi di application ne ho mandate tre, e sono stata accettata in tutte e tre le università del Regno Unito dove l'ho mandata. Il biglietto non ce l'avevo, fisicamente, ma è chiaro che aspettavo solo il via per comprarlo. Non solo avere mandato una domanda di PhD non ti mette in una posizione privilegiata, ma neppure averlo completato, pubblicato la tesi, avere insegnato a contratto per anni nella stessa università dove lo hai fatto, e in altre università, ti mette in nessuna posizione privilegiata, perché alla fine sei un precario comunque, anche se il titolo del tuo contratto a tempo determinato suona molto fico, come Postgraduate Teaching Assistant, oppure Temporary Assistant Lecturer. Fa molto fico, ma tradotto per il volgo significa "precario della ricerca". Le prospettive? Non meglio di qui. Il sistema baronale è ancora più feroce perché surrettizio, i tagli alla ricerca severissimi, i pensionamenti non vengono sostituiti con grave perdita di cattedre nel settore umanistico tutto, italianistica in particolare (seguita a ruota libera dal russo). Insomma, esiste una mitologia della fuga all'estero che sarà bene esplorare con maggiore cognizione di causa, perché le favole che si raccontano hanno finora impoverito il paese di teste pensanti, con i risultati che ben si vedono.
Per entrare nel merito del tuo articolo, tu sostieni che la giornalista si sia sottoposta a un martirio per una battaglia che è personale. Bhe, a me questa battaglia non sembra affatto personale, come non era personale lo sciopero della fame delle maestre a settembre, come non è personale l'episodio degli operai saliti sula gru. Si tratta di focoloai di rivolta che è necessario trattare con la dovuta importanza, focolai in cui si manifesta per il semplice rispetto di un diritto del lavoro che in Italia esiste, ed è messo a dura prova da una cattiva prassi che tu collochi in zone cromatiche, e che io continuo a chiamare illegalità e sommerso, termini che non sono affatto passati di moda. Non è certo la giurisprudenza che offende indebolisce ogni giorno i lavoratori: è questo continuo mantenere separata e distinta la narrazione dei focolai di lotta come se fossero vicende in cui ogni combatte per il suo, e non piuttosto una insofferenza generale per una condizione lavorativa condivisa in cui ognuno nella sua categoria subisce continui abusi.
Lo dico a chiare lettere: mi spiace, mi spiace veramente leggere sul blog di minimum fax, lo stesso editoe che ha pubblicato il libro di Girolamo, che va in ben altra direzione, un articolo che tratta con tanta sufficienza il tema della lotta per un obiettivo che deve essere comune, invece di dare voce a chi ha qualcosa di ben meglio da proporre che la solita trita fuga all'estero, il solito distogliere lo sguardo da un problema così serio come il mancato rispetto di diritti acquisti in anni di lotte sindacali e che stiamo rischiando di perdere, anzi, che una parte dei lavoratori con l'applicazione della L30 di fatto ha già perso.
claudia, cerco di chiarire:
1. l'essere "disposto a partire" non significa "l'avere il biglietto pronto" per come l'hai inteso tu nel tuo primo commento (e cioè come una condizione da cui guardare, in maniera sprezzante, dall'alto verso il basso una situazione). che poi sia disposto a partire, è una questione puramente mia, non una proposta generale (vedi ultimo punto).
-2. non capisco – davvero! – perché l'immagine delle zone cromatiche ti irriti. cercavo esattamente di spiegare quello che dici tu, e questa frase mi sembra chiara: "negli ultimi anni stiamo assistendo a un restringersi sempre più rapido di quella zona neutra fatta del semplice esercizio dei propri diritti: la zona esistenziale e civile, per essere più precisi, nella quale esercitare un proprio diritto non è determinato dall’uso di un potere."
non stavo giocando coi colori, stavo parlando esattamente di sommerso e precarietà e problemi reali. lo ripeto in lungo e in largo in tutto il pezzo (es. "a cosa più atroce – e che ho provato sulla mia pelle diverse volte, specie negli ultimi tempi – è l’idea che se tu provi a rientrare nella zona neutra, sei uno stronzo. Sì. Sei tu, il debole, quello cacciato nella zona nera, a non poter alzare la voce – a comportarti male, a non essere un collaboratore fidato, un lavoratore silente e dedito, eccetera.").
3. "tu sostieni che la giornalista si sia sottoposta a un martirio per una battaglia che è personale". non esattamente. credo che il suo gesto abbia una risonanza universale, ma che di fondo parta da ragioni personali (che sono meno gravi di altre – parlavo degli operai saliti su una gru apposta, perché loro non hanno ALCUN diritto, altro che essere assunti). e nello specifico, credo che non sia un gesto che porti a soluzioni – se non, appunto, a soluzioni personali. che fine ha fatto ora paola caruso?
4. dici: "Non è certo la giurisprudenza che offende indebolisce ogni giorno i lavoratori: è questo continuo mantenere separata e distinta la narrazione dei focolai di lotta come se fossero vicende in cui ogni combatte per il suo, e non piuttosto una insofferenza generale per una condizione lavorativa condivisa in cui ognuno nella sua categoria subisce continui abusi."
ma io non ho mai sostenuto che sia "la giurisprudenza" (?!) a offendere e indebolire i lavoratori. anzi, parlo proprio di abusi di potere orribili e disgustosi, di prassi che umiliano il lavoro, eccetera.
5. "invece di dare voce a chi ha qualcosa di ben meglio da proporre che la solita trita fuga all'estero": il riferimento alla "trite fuga all'estero" era puramente personale ed era nelle ultime due righe del mio pezzo. le ultime due, e le meno rilevanti. l'articolo in sé non parla affatto di questo. in nessun modo.
in sintesi: se il mio pezzo ti è sembrato un pezzo che tende a separare e atomizzare i lavoratori e inneggia a fughe strafighe all'estero e non prende in considerazione il problema reale del paese, francamente non so cosa dire. il mio scopo era l'esatto opposto. sollevare delle domande, cercare delle soluzioni che non terminino nel sacrificio singolo (e che in effetti non ha portato a niente, se andiamo a guardare, in termini di risoluzione del problema generale), e problematizzare la questione.
ciao
giorgio
Giorgio, ti rispondo ai punti nell'ordine che hai seguito tu.
1. Scusami, ma siccome il blog di minimum fax non è il tuo blog personale, permetterai che nel momento in cui decidi di rendere pubblico il fatto che stai mandando domande all’estero, questo possa essere interpretato come un esplicito invito ad andarsene dall’Italia. Altrimenti, non vedo in quale altra forma i lettori dovrebbero sentirsi coinvolti dalle tue personalissime titubanze. Mica stiamo su facebook, suvvia.
2. Te lo spiego volentieri. Mi irritano questi cromatismi perché intellettualizzano un dramma che colpisce questo paese non certo da oggi, ma che oggi è esacerbato da una legislazione sulla flessibilità che ha di fatto legalizzato gli abusi. Rimanessimo almeno concordi sul lessico, si farebbe meno fatica a capirsi, visto che questo dramma colpisce tutti quelli che non hanno un contratto a tempo indeterminato.
3. Mi piacerebbe sapere qual è il criterio secondo cui il dramma del mancato rinnovo di un contratto di un lavoratore atipico è più grave della mancata assunzione di un altro gruppo di lavoratori in nero. Stiamo facendo la classifica di chi è più sfigato? Il gesto della giornalista non doveva portare a soluzioni, ma spingere a parlare del problema, e credo che in questo obiettivo sia riuscita bene. Ti chiedi che fine abbia fatto: ebbene, la risposta l’avresti trovata da te sul suo tumblr, se ti fossi preso il disturbo di informarti prima di scrivere, cosa che è sempre consigliabile, specie se si pubblica in luogo della rete parecchio frequentato.
4. Vedo che trasecoli alla parola “giurisprudenza”. Forse ti sfugge che se vuoi essere preso sul serio discutendo di problematiche del lavoro, sarebbe necessario che usassi un lessico appropriato, nello specifico afferente all’ambito del diritto del lavoro. Altro che cromatismi.
5. Vedi il punto 1.
Infine, perdonami Giorgio, ma in tutta sincerità se il tuo pezzo mi è sembrato (a me lettrice) un pezzo che tende a separare i lavoratori e inneggiare alle fughe all'estero senza prendere in considerazione il problema reale del paese, mentre il tuo scopo era l'esatto opposto, be’ forse il tuo pezzo andava calibrato (soprattutto dal punto di vista stilistico) in maniera più efficace.
Non confondiamo, per favore, l’esercizio (peraltro un po’ sterile, in questo contesto) di problematizzare la questione, con il rendere il problema godibile agli amanti della bella prosa, perché ci manca solo il delirio onanistico-estetizzante sul precariato, e poi siamo a posto.
Ciao, Claudia
(ricopio da minimaemoralia per trasparenza):
ciao claudia. sinteticamente:
1.”ma siccome il blog di minimum fax non è il tuo blog personale, permetterai che nel momento in cui decidi di rendere pubblico il fatto che stai mandando domande all’estero, questo possa essere interpretato come un esplicito invito ad andarsene dall’Italia.”
il pezzo in origine è stato pubblicato sul mio blog personale. e, ripeto, mi sembra assurdo considerare le ultime due righe di un pezzo che parla di tutt’altro come un invito evidente (ti ricordo che tu hai parlato esplicitamente di “proporre la solita trita fuga”). è come se non avessi fatto altro che parlare di questo per tutto l’articolo!
2. “Mi irritano questi cromatismi perché intellettualizzano un dramma che colpisce questo paese non certo da oggi, ma che oggi è esacerbato da una legislazione sulla flessibilità che ha di fatto legalizzato gli abusi.”
era un modo per spiegare la questione. non lo trovo “intellettualizzante”: ho parlato di bianco, nero e neutro. avessi tirato fuori termini postmoderni capisco. e, ripeto, ho insistito a lungo su problemi reali (cfr. le frasi che ho citato). se questo è onanismo intellettuale, non so che dire.
3. “Mi piacerebbe sapere qual è il criterio secondo cui il dramma del mancato rinnovo di un contratto di un lavoratore atipico è più grave della mancata assunzione di un altro gruppo di lavoratori in nero.”
non si tratta della mancata assunzione di un altro gruppo di lavoratori in nero: si tratta di un gruppo di persone che non hanno ALCUN diritto – non-persone, per dirla con del lago. immigrati senza permesso sfruttati per due lire, come a rosarno.
la tua domanda è intelligente, e non voglio fare classifiche di dolore: ma, permettimi una controdomanda. se non c’è davvero alcun paletto e criterio per capire le gradazioni di un problema, allora davvero qualunque tipo di abuso ha la medesima urgenza e parità? qualsiasi? sicura? è davvero la stessa cosa che un essere umano non abbia nulla e che una persona non venga assunta? per capire.
poi:
“Ti chiedi che fine abbia fatto: ebbene, la risposta l’avresti trovata da te sul suo tumblr, se ti fossi preso il disturbo di informarti prima di scrivere, cosa che è sempre consigliabile, specie se si pubblica in luogo della rete parecchio frequentato.”
lo so, e l’ho letto. mi scuso se non ho precisato quanto volevo dire. il suo tumblr me lo sono letto tutto prima di scrivere questo pezzo: quello che volevo dire è: è stato un gesto che ha realmente cambiato qualcosa a livello generale? mi sembra che di abuso dei diritti si parlava anche prima, e molto. io dicevo (e scrivevo) che come soluzione non mi pareva soddisfacente. ma su questo, mi pare, siamo d’accordo.
4. “Vedo che trasecoli alla parola “giurisprudenza”. Forse ti sfugge che se vuoi essere preso sul serio discutendo di problematiche del lavoro, sarebbe necessario che usassi un lessico appropriato, nello specifico afferente all’ambito del diritto del lavoro. Altro che cromatismi.”
se trasecolo sulla parola giurisprudenza è perché l’hai usata tu, non io. indicami per favore dove uso un lessico non appropriato: righe precise. così capisco.
5. non hai risposto alla mia domanda.
“be’ forse il tuo pezzo andava calibrato (soprattutto dal punto di vista stilistico) in maniera più efficace.”
accetto volentieri la critica.
“con il rendere il problema godibile agli amanti della bella prosa, perché ci manca solo il delirio onanistico-estetizzante sul precariato, e poi siamo a posto.”
non ho fatto niente di questo tipo.
poi per carità, ognuno legge ciò che vuole: però ti chiedo di rispondere alle mie domande, la 5 in particolare, per onestà intellettuale.
Giorgio, tralasciamo che io al punto 5 non leggo alcuna domanda, mi pare che tu pretenda un'analisi puntuale del tuo articolo, cosa che sinceramente non ho il tempo di fare. Mi ha dato fastidio, e dopo averlo riletto più volte, continua a non convincermi, il bisogno di attribuire a comportamenti illeciti una cornice letteraria, trasponendoli in una specie di torta tricolore peraltro senza percentuali. Tutto il paragrafo in cui illustri le tre zone (da "la zona neutra" a "il plauso di chiunque") è una lunga generalizzazione, nella quale non è affatto chiaro cosa tu intenda con "abuso di potere", mentre è molto chiaro cosa intendi con "zona nera" e ho giò avuto modo di dire che la pratica di non assunzione ha già un nome, e questi ricami letterari creano solo confusione in chi li legge.
Ad ogni modo, senza voler fare della filologia, il tuo brano non mi convince soprattutto perché è tutto fatto di pars destruens, mentre manca totalmente la parte costruttiva. Sostieni che non avevi intenzione di invitare alla fuga all'estero, ma una frase di chiusura come quella hai messo tu per quanto mi riguarda è un preciso invito.
Per quanto concerne invece il fraintendimento sulla parola "giurispudenza", non mi riferivo a contenuti specifici del tuo testo, ma intendevo che se la cattiva prassi di cui tu parli nel tuo testo inquina la vita di chi si inserisce nel mondo del lavoro con contratti atipici, la risposta risiede nel procedere contro chi non rispetta i termini del contratto scritto, che pur non garantendo tutele sociali, deve garantire per lo meno il pagamento regolare delle prestazioni d'opera. Dopodiché, un contratto che non garantisce alcuna tutela al di fuori della mera retribuzione per la prestazione è da rifiutarsi a priori se l'aspirazione è quella di inserirsi come lavoratore dipendente. E' chiaro che se il lavoratore stesso a non passa ai fatti tutelandosi sindacalmente, di conseguenza si verificano abusi di ogni genere, e questo è anche il motivo per cui sono i lavoratori atipici in primo a luogo che dovrebbero stare uniti, piuttosto che porsi scetticamente nei confronti dell'efficacia della protesta di un singolo. Ti dici che per vedere rispettato il tuo lavoro non vuoi doverti trasformare in un maritre, e nessuno può darti torto. Tuttavia permetterai che nel momento in cui viene passato il collegato lavoro, non è più possibile pensare che la situazione migliori se non aderendo a forme di protesta, siano esse singole o collettive, per quanto estreme. Tutto qui. Spero che ci siamo chiariti, buon lavoro, Claudia