di Claudia Boscolo

A fronte del forte flusso migratorio che ha interessato l’Italia negli ultimi anni, il sistema scolastico nazionale non è ancora in grado di offrire un servizio valido di inserimento linguistico degli alunni stranieri nelle scuole. La scuola pubblica incontra serie difficoltà nell’organizzazione dei laboratori di L2, che dovrebbero garantire ai figli degli immigrati iscritti alla scuola dell’obbligo di impararne la lingua e di raggiungere una competenza sufficiente a studiarne le materie. Esistono diverse soluzioni e dipendono dalla capacità organizzativa dei dirigenti scolastici, oltre che dall’esperienza  degli insegnanti a disposizione. È inutile sottolineare che le scuole non dispongono delle risorse economiche per assumere con contratti di diritto privato i facilitatori linguistici di cui avrebbero bisogno e quindi si arrangiano con il personale docente che hanno. Sorgono quindi due problemi: innanzitutto, i docenti di lettere non sempre hanno esperienza nell’insegnamento della lingua italiana agli stranieri. Per lo più si tratta di insegnanti di qualsiasi classe di concorso di Lettere (che, ricordiamolo, sono quattro e molto diverse fra di loro) che hanno sempre fatto lezione in classe sulla grammatica italiana a studenti italiani. Il secondo problema consiste nel mancato utilizzo da parte della scuola pubblica dei facilitatori linguistici certificati, in possesso quindi di qualifiche che sono costate agli stessi tempo e denaro e che al contempo hanno ingrassato le tasche dei centri titolati a rilasciarle. Questi centri si trovano all’interno delle facoltà di Lingue e fanno capo a due Università, cioè quella di Siena e quella di Venezia, che rilasciano rispettivamente i certificati CILS e ITALS. Chi sceglie di investire in una certificazione di insegnante di L2 (cioè la lingua italiana agli stranieri) di solito ha già una laurea in materie umanistiche, Lettere o Lingue, che permette l’inserimento in una classe di concorso a scuola, cosicché a volte le scuole si ritrovano per puro caso fra il corpo docente qualche facilitatore linguistico. È una grande fortuna soprattutto per gli studenti stranieri, ma è anche evento di grande rarità e, appunto, del tutto fortuito. Come si diceva sopra, l’utilizzo ideale del facilitatore avverrebbe attraverso la stipula di contratti di diritto privato, generalmente contratti di collaborazione o di prestazione d’opera, in regime quindi di precariato assoluto disciplinato dalla L. 30. Questi collaborati esterni forniscono alla scuola un servizio, ma non beneficiano di nessuno dei diritti garantiti agli insegnanti, anche se di terza fascia, entrati a scuola attraverso le graduatorie.

Di fatto in Italia non esiste una graduatoria di L2, quindi i facilitatori linguistici certificati vengono inseriti in liste non ufficiali ovviamente ignorate dai provveditorati e dalle segreterie docenti delle scuole stesse, con il risultato che chi ha pagato fior di quattrini per prendersi la certificazione ITALS o CILS non viene minimamente preso in considerazione quando si tratta di assegnare incarichi che riguardano l’insegnamento dell’italiano agli stranieri, i quali vengono dati esclusivamente in base alla classe di concorso. A scuola si ritiene che chi, per esempio, sta nella A043 (Italiano, Storia e Geografia alla secondaria di primo grado) sia in grado di insegnare anche italiano agli stranieri, cosa lontanissima dalla realtà. Si tratta di uno dei molteplici aspetti – tanto più inquietante in quanto privo di soluzione – del più ampio discorso sulla bolla formativa di cui si parla ultimamente sul blog de La furia dei cervelli.

Sostanzialmente, ci si chiede per quale motivo le Università continuino a sfornare facilitatori linguistici, quando non esiste una chiara e ben definita politica educativa rivolta all’inserimento degli immigrati a scuola, che preveda fondi da destinare a contratti con collaboratori esterni specializzati e l’allestimento di laboratori linguistici attrezzati. In alternativa, forse anche meno costosa, la creazione di una graduatoria di L2 destinata ai facilitatori e il conseguente inserimento effettivo di questa figura professionale all’interno del corpo docente, con tutte le tutele del caso, ovvierebbe al problema che si ripresenta nel solito caos generale di inizio dell’anno scolastico. Paradossalmente, nella scuola pubblica è invece contemplata la figura del lettore di lingua, un cittadino di origine straniera reclutato dal ministero per il rinforzo linguistico nell’apprendimento della lingua straniera da parte degli studenti italiani. Il facilitatore equivale al lettore di lingua, ma evidentemente gli studenti immigrati iscritti nella scuola pubblica italiana non sono degni dello stesso trattamento riservato ai loro compagni di cittadinanza italiana. Tempo fa la sempre perspicace Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro, ebbe la democratica idea – per fortuna mai messa in atto – di costituire classi separate per i figli degli immigrati, dando vita a una discriminazione di fatto che impedirebbe il processo di integrazione. La soluzione alla questione dell’integrazione è in realtà semplicissima, ed è per questo forse che i Ministri Gelmini e Profumo – il quale si produce nel frattempo in esilaranti variazioni sul tema “reclutamento docenti” – non sono riusciti a elaborarla. Basterebbe rinforzare ciò che di fatto già si fa, cioè allestire dei veri laboratori linguistici oppure utilizzare quelli già presenti all’interno degli istituti per l’apprendimento delle lingue straniere, ed esonerare dalle lezioni in classe gli studenti stranieri permettendo loro di seguire corsi di italiano veri e propri gestiti dai facilitatori. Questo darebbe vita a un circolo virtuoso, in cui gli alunni inseriti nelle classi frequentando i corsi all’interno della scuola avrebbero la possibilità non solo di imparare l’italiano ma contestualmente di praticarlo durante le ore di presenza nella classe in cui sono inseriti. Si preferisce invece lasciare gli studenti immigrati nelle mani di improvvisatissimi insegnanti di sostegno, oppure palleggiarli fra insegnanti che devono semplicemente completare l’orario e non hanno idea di come si usino i materiali di L2 (e neppure come procurarseli, se la scuola non ne dispone). Ancora una volta, i casi virtuosi sono quelli di insegnanti che vivono il problema dell’inserimento linguistico come una questione da affrontare con spirito di volontariato, sobbarcandosi lavoro in più, una costante incivile e vergognosa della scuola pubblica che non riguarda solo la questione dell’insegnamento della L2.

Nel frattempo, i facilitatori per lo più si impiegano con contratti di prestazione d’opera presso le varie associazioni e cooperative che si occupano dei corsi di italiano agli stranieri, ma non esiste una normativa per cui le associazioni siano obbligate a rivolgersi a queste figure professionali. Così, di fatto anche in quel contesto l’italiano lo insegna qualsiasi laureato o diplomato l’associazione o cooperativa decida di assumere, creando una giungla in cui nessuno è in grado di garantire che gli immigrati siano messi veramente nella situazione di imparare a tutti gli effetti la nostra lingua. Anche all’interno degli stessi centri di educazione degli adulti, ex 150 ore, gli insegnanti di italiano entrano per diritto di graduatoria e non per essere veramente qualificati a svolgere un lavoro così delicato. Non esiste quindi un mercato del lavoro disciplinato per i facilitatori linguistici, non solo all’interno della scuola pubblica, ma in tutti i contesti sociali e culturali in cui si svolgano corsi di lingua italiana, con danno da ambo le parti. Di questa situazione fanno infatti le spese sia i facilitatori sia gli stessi immigrati, che non ricevono una formazione linguistica adeguata ad affrontare il mondo della scuola, della burocrazia, del lavoro.